lunedì 18 ottobre 2010

Grazie!

Cari artisti, qualche riga per dirvi grazie.
Intanto per la vostra disponibilità, per nulla scontata, a partecipare ad una rassegna d'arte contemporanea senza finanziamenti, né pubblici, né privati.
Grazie anche per il vostro coraggio ad esporvi in questa iniziativa insieme a noi, appassionati dilettanti della progettazione curatoriale, per un progetto espositivo certamente non semplice, sia per la complessità del tema, sia per le difficoltà nell'uso degli spazi a nostra disposizione.
Un grazie anche, a quelli di voi che hanno potuto essere presenti, per l'aiuto materiale alla realizzazione dell'allestimento, anche questo non scontato, e senza il quale non avremmo mai potuto finire in tempo per l'apertura della mostra.
Ma soprattutto un grazie per la qualità dei vostri progetti artistici, con i quali abbiamo potuto concretizzare le nostre/vostre “traduzioni”.
Il successo di quest’esperienza, che possiamo dedurre dal numero dei visitatori e dalle loro dimostrazioni di apprezzamento, lo dobbiamo quindi a voi e alla qualità del vostro lavoro, ma anche alla vostra effettiva collaborazione alla riuscita del progetto.

Ancora grazie di cuore,
 codec (Carmelo, Manuela, Massimo)

Ma anche a tutti coloro che ci hanno aiutato, materialmente e non:
Alberto e Gabriele Del mela, direttori della Scuola Toscana, che ci ha ospitato;
Asli Bicakci, per i contatti con la Turchia e la presenza costante;
Francesca Bertocci, per il bellissimo specchio;
Cristina Dal Rio per il "distributore di idee";
Fabrizio Masini, per le "questioni elettriche";
Luigi Maggio, Simon Judge, Solal Abeles, Cornelio e Cosimo, per la grossa mano nella sezione "montaggio&smontaggio";
Ewa Dziejuch, Carla Konsten, Maria Josè Moraza, Solal Abeles, Izumi Hashimoto, Melina Kistani, Gerda Helena Schwenger per le traduzioni;
e ancora studenti e amici stranieri, presenti con le loro voci;
Grazie anche a voi!

martedì 12 ottobre 2010

Ximena e Aleksandra per PF#6.12

Manuale per gli Italiani in Italia, 2010, Video
(realizzato da Ximena Zuniga e Aleksandra Zurczak)



Vol.1 : Come approcciare uno straniero

Questo video vuole fornire agli Italiani una semplice guida per avvicinare uno straniero per strada in caso di necessità, partendo dalla premessa che identificare la provenienza dello straniero sia necessario per trovare il modo giusto di porre domande semplici - ad esempio indicazioni stradali, l'ora o anche di scattare una foto – e ottenere delle risposte utili.

-Parte I: Identificare la possibile provenienza dello straniero.

-Parte II: Come formulare la domanda a seconda del paese di provenienza dell’interocutore per ottenere delle risposte.

«Come stranieri che abitano in Italia ci rendiamo conto, dopo un po’, di qual è l'immagine che gli italiani hanno di noi. In modo ironico, abbiamo voluto prendere in giro gli stereotipi con cui veniamo classificati, rappresentandoli in modo palese; sia perché dietro ogni stereotipo c'è un po’ di verità e sia per evidenziare che, tra stranieri, pur cercando di amalgamarci alla cultura che ci ospita, rimane in ognuno di noi una identità culturale che non potremo mai ignorare, nemmeno dopo anni vissuti lontano dalle proprie radici». (Ximena Zuniga e Aleksandra Zurczak)

Ximena Zuniga per PF#6.12

Idee da bere, 2010 Installazione


Se c’è un’internazionale compiuta, questa è l’internazionale del consumo. In epoca di globalizzazione selvaggia, di americanizzazione del mondo, il mercato è il luogo in cui tutti, in quanto consumatori, siamo “uguali”, tutti parliamo la stessa lingua. 
Partendo da questo modello di democratizzazione illusoria, da questa omogeneizzazione delle differenze nel segno del commercio, in virtù dei quali tutto si può comprare, la Zuniga gioca con i simboli del consumo mettendo in vendita, attraverso un distributore automatico, anche le idee. Per pochi centesimi è possibile acquistare qualsiasi prodotto e “dare da bere” qualsiasi cosa.

Home is where you make it, 2008, Legno e pvc

Cosa definisce la nostra identità? Il luogo da cui proveniamo o quello in cui ci sentiamo più a casa? Questa è la domanda che ci pone Home is where you make it, un plastico costruito su un comune tappeto domestico, un oggetto che normalmente individua la soglia che separa l’interno dall’esterno, la frattura tra l’ignoto e la conoscenza, tra l’indifferenziato e ciò che è nostro, il pubblico e il privato. Nella soglia di casa è posto in evidenza il problema dell’abitare. Paradossalmente, proprio questa soglia diventa per la Zuniga il supporto di una visione di sradicamento: rappresentazione della distopia suburbana per eccellenza, quella americana. Un quartiere qualsiasi, completamente anonimo, con prati e casette, dove si finisce per costruirsi un’identità a-territoriale, disancorata da ogni possibile genius loci.

Family Portrait, 2007, Pvc, foto e oggetti vari


Pezzi di memoria a comporre un ritratto familiare mosso e iridescente. Ancora una volta una riflessione sull’identità. Individuale o piuttosto multipla, separata o da organizzare nel disegno di una complessa costellazione familiare?

Letteria Giuffrè Pagano per PF#6.12

Acerbo incantamento, 2010 Installazione

Pagine e pagine... Provo gioia e un senso di libertà nello scrivere sulle superfici delle tele. A volte scrivo delle storie, incompiute, come fossero stralci di pagine di libri. Uso la mia lingua e il mio dialetto, il siciliano, quasi a cercare un contatto più arcaico fatto di suoni, significati, sapori, immagini.
In alcuni casi sono le fiabe e i sogni che ispirano le scritture, giocando con questi elementi la calligrafia diventa ora segno ora forma ora linguaggio segreto, traccia e memoria. Pagine arrivate dal passato, reperti trovati chissà dove o oracolo che che ci svela qualcosa di noi o del nostro tempo? L'ambivalenza è sempre prepotentemente presente.
Attraversando una babele di segni, la calligrafia sulla superficie della tela diventa irriconoscibile, un non-linguaggio. Qui c'è il sapore del mistero. L'incontro con il non-conosciuto, con l'infanzia forse.“ (Letteria Giuffrè Pagano)

Opere esposte:

1. Liber / scritture su tela, 2010 Acrilico, matita, foglia d'oro su tela



2. Liber 129, 2010 Acrilico, matita su tela, cm 50x50
3. Paper / scritture su carta, 2010 collage di carta, acquarello, matita su carta, cm 35x35 ciascuno


Ismail Acar per PF#6.12

Roxelana, 2001, Cartoncino traforato, 300x210cm



Roxelana, la “rossa”, è il ritratto di un celebre e ambiguo personaggio della storia turca. Il suo vero nome era forse Aleksandra Lisowska, veniva dall’Ucraina, e fu comprata al mercato degli schiavi di Istanbul dal gran visir Ibrahim Pascià per darla in dono al sultano Solimano il Magnifico (secondo alcuni studiosi, Roxelana fu inizialmente donata al padre di Solimano, Selim, che, non essendo più in età di goderne, la cedette al figlio). Nel 1534, grazie alle sue doti di seduttrice, ma anche alla sua abilità di narratrice, riuscì a farsi sposare dal Solimano diventandone l'unica veneratissima moglie. Il sultano aveva già un figlio, il vero erede al trono, ma Roxelana riuscì a farlo uccidere aprendo la strada ai propri figli Bayezid e Selim.
L’opera si compone di nove pannelli di cartoncino bianco traforato: una riproposizione aggiornata della tipica tradizione scultorea e architettonica ottomana. Acar rivisita la memoria decorativa turca in senso bidimensionale, asciugandone gli aspetti più vistosamente esornativi e vernacolari all’interno di una rigorosa ricerca dell’essenza. Roxelana ha vinto il primo premio della Biennale di Firenze del 2009 come migliore opera su carta.

Blu-Mosque, 2009, Olio su tela.



Blu-Mosque non è una semplice descrizione della grandiosa Sultanahmet camii (1597-1616), più nota come Moschea Blu, fatta costruire dal sultano Ahmed, per quanto la tecnica pittorica e l’iconografia rimandino a una modalità di rappresentazione vagamente oleografica. E’ piuttosto un’iper-architettura, un affascinante gioco di specchi; moltiplicazione abnorme di elementi riconoscibili della facciata che, giustapposti in sequenza, generano una “caduta in abisso” in senso orizzontale. Acar rilegge in chiave fantastica e ossessiva il tema dell’appartenenza religiosa: l’Islam raccontato come smisurata dimora del credente, come ripetizione di riti, porte e preghiere, come vertiginosa inflazione identitaria.

Francesco Lastrucci per PF#6.12

Vanishing Kashgar

Kashgar è il centro della cultura e dell'etnia Uighur, popolo di discendenza turca, la maggior parte del quale risiede attualmente nell'odierno Xinjiang, nella Cina Occidentale, e rappresenta il 77% della popolazione della città.
Nel IX secolo gli Uighur, migrando dalla Mongolia, si insediarono in villaggi intorno al deserto. Da buddhisti, cominciarono a convertirsi all'Islam 300 anni dopo. Nei seguenti 1000 anni Kashgar ha conosciuto la prosperità, la decadenza e l'oppressione cinese.
Gli Uighur hanno brevemente assaporato l'indipendenza nel 1933, dichiarando la Repubblica del Turkestan Orientale, durata solo un anno, estesa dai Monti Tian Shan alla catena del Kunlun. Nel 1944, con il governo nazionalista cinese al collasso, gli Uighur fondarono la Seconda Repubblica del Turkestan Orientale, che ebbe fine nel 1949, con l'ascesa di Mao Zedong. Dal 1955 la Cina riconosce la Regione Autonoma Uighur dello Xinjiang, con scarsi poteri locali; gli Uighur ne sono il maggior gruppo etnico.


Nei secoli la vita nella città di Kashgar, uno dei più importanti nodi dell'antica Via della Seta, era rimasta pressoché inalterata. Ora gli edifici di mattoni di fango, distribuiti lungo labirinti di stradine impolverate dalle sabbie del deserto del Taklamakan, sono oggetto di un piano di rilancio da parte del governo cinese, che nel 2009 ha annunciato il programma “Riforma delle Case Pericolose di Kashgar”: per i prossimi anni è stata pianificata la demolizione di moschee, mercati e case secolari, l'85% della Città Vecchia.
I residenti verranno indennizzati e spostati nei nuovi casermoni di cemento che sorgono nella periferia. Al posto degli antichi edifici di mattoni di fango ci saranno moderni blocchi di appartamenti e uffici, alcuni decorati con cupole in stile islamico, a evocare la gloria passata; ma generalmente la città nuova assomiglierà ad ogni altra città cinese, con strade larghissime e grandi edifici di cemento armato.


Il governo ha stabilito di conservare una piccola parte della Città Vecchia sostenendo che le demolizioni servono a fortificare la città contro i terremoti. In realtà il piano riflette la convinzione governativa per cui le minoranze etniche non possono contribuire alla modernizzazione della società. Inoltre la maggior parte dei residenti non ha diritti di proprietà, questo li rende stranieri in casa propria e facilmente ricattabili a vantaggio di spregiudicate speculazioni.
Così la Città Vecchia, in cui nessun cinese vive e dove pochissimi Uighur parlano Mandarino, verrà distrutta o trasformata in un parco turistico a tema e la sua popolazione reinsediata altrove, secondo un modello usuale per la Cina odierna in cui nessuno ha chiesto l'opinione degli Uighur.


Francesco Lastrucci descrive con sguardo appassionato la vita della comunità Uighur, con i suoi riti, i suoi commerci, la sua silenziosa resistenza al “recupero” cinese, mentre le memorie fisiche della città di Kashgar vengono sistematicamente cancellate. Un’identità sotto assedio, quella di Kashgar, stretta in uno scientifico progetto di annullamento. Tra la polvere del deserto mescolata a quella delle case in demolizione si colgono volti e luoghi sul punto di svanire.

lunedì 11 ottobre 2010

Enikő Lőrinczi per PF#6.12

Selva dei destini incrociati, 2010 Installazione

La mostra/installazione si basa su un gioco combinatorio liberamente ispirato al Castello dei destini incrociati di Italo Calvino. Chi vi entra è chiamato a farsi viaggiatore e ad addentrarsi in una selva di immagini e parole per diventare narratore/interprete/traduttore della propria esperienza visiva e sensoriale.
Le immagini godono della totale libertà di raccontare storie, suggerire sensazioni e possono mutare a seconda dei punti di vista adottati. Il linguaggio della visione, per Lőrinczi, trascende la lingua stessa: è capace di suscitare intuizioni, generare microstorie, tentare “traduzioni”. Il visitatore è invitato a interpretare le carte/immagini seguendo il filo narrativo suggerito dall'autrice, o scegliere di selezionarle casualmente, come se dovesse estrarle dal mazzo di tarocchi del romanzo di Calvino. In questo modo può ipotizzare itinerari e connessioni del tutto personali, intrecciati con le proprie esperienze di vita; liberando l’inesauribile potenziale significante delle immagini. La selva immaginaria, dunque, diviene il luogo dove le storie, i destini, i percorsi di persone tra loro assai diverse si possono incrociare, anche solo per un tempo infinitesimale.

1. Blurred Vision/Visioni appannate
(2 serie di 8 fotografie 30x30cm, realizzate tra il 2006 e il 2010)


2. Astrazione collettiva
(21 fotografie 30x30cm, realizzate tra il 2006 e il 2010)



3. Poesia immaginata
(5 fotografie B/N 30x40cm – testo di Massimo La Spina)



4. Installazione
(fotografie di Enikő Lőrinczi - testo di Massimo La Spina - traduzioni di Enikő Lőrinczi, Ewa Dziejuch, Maria Josè Moraza, Solal Abeles, Izumi Hashimoto, Melina Kistani, Gerda Helena Schwenger)


Cyop&Kaf e Diego Miedo per PF#6.12

Cyop&Kaf - Permesso di soggiorno, 2010, Tecnica mista su cartone e stoffa

Diego Miedo - Babylon Fallin’ 1 e 2, 2010, china su carta.


Lo statuto di straniero non è sempre stato lo stesso nella storia. I greci distinguevano tra barbaro (barbaros) e straniero (xenos). Il barbaro è il nemico, portatore di ostilità, non di saggezza; appartiene a una specie diversa di uomini, presenta nei tratti fisici come nei comportamenti sociali un aspetto tale da farlo apparire mostruoso. Lo xenos ha un legame con il sacro, è un inviato di Zeus Xenios, protetto da Athena Xenia, è rappresentante di umanità, figura dell’eccezione, sfuggente alle definizioni e pertanto portatore di misteriosa individualità. La concezione dello straniero come barbaro è intervenuta quando i greci, durante le guerre persiane, hanno sentita messa in discussione la loro implicita superiorità culturale e, deboli sul piano bellico, hanno avuto bisogno di sentirsi superiori sul piano civile a chi, nella lingua della civiltà, sapeva tutt’al più balbettare. Gli stranieri rappresentati in Permesso di soggiorno sono gli “extracomunitari”, i “migranti”, gli “immigrati”, i “clandestini”, i “profughi”, i “rifugiati”: nuovi barbari della modernità occidentale, quelli a cui viene negato lo status di “ospiti”, con le regole sacre e inviolabili ad esso connesse; quelli che la civilissima Europa considera un’emergenza o un problema di sicurezza. Le creature antropomorfe, barbaricamente mostruose di Cyop&Kaf e Diego Miedo, mettono in scena le modalità di “accoglienza” che le comunità di approdo riservano all’altro da sé.

Azzurra Argentieri per PF#6.12

World Words, 2010 Installazione sonora


Provocatoria riflessione sonora sul clima di pogrom in cui viviamo. La registrazione di una deriva autoritaria, di una temperie, di un’ideologia qualunquista che alimenta le paure delle maggioranze consenzienti. Un’incursione ironica dentro luoghi di culto e canti di ogni confessione religiosa, pubbliche piazze, non-luoghi urbani e virtuali, tribune mediatiche e presunti incubi collettivi. Un miscuglio di voci altisonanti e retoriche, sinistramente aggressive, contrappuntate da flebili inviti al dialogo e all’inclusione da parte di chi cerca “traduzioni” possibili, dall’ottimismo della volontà del celebre “Yes we can!” obamiano, all’appello all’arte, contenuto in un celebre brano de La messa è finita di Moretti, come possibile via d’esodo dinanzi alla violenza razzista. Un viaggio nel buio di una paranoia identitaria in cui certa politica vuole precipitarci, ponendo la difesa ossessiva del “particolare” e della “norma” quale paradigma della propria integrità culturale, scudo protettivo verso qualsiasi invasione barbarica.

Aleksandra Zurczak per PF#6.12

Antonimo, 2009, (“C’era una montagna dove era casa mia - C’era una montagna dove era il mio inferno”) artbook - Grafite su carta



Bastione, 2008, artbook - Grafite su carta



Argomento essenziale degli artbook “Antonimo” e “Bastione” è la dialettica tra il punto e la massa, la parte e il tutto.
La contrapposizione di quantità e qualità provoca continui cambiamenti nelle singole parti, predisponendole alla deformazione sul piano corporeo e psichico.
Esiste un luogo, si chiede la Zurczak, nel quale l’uomo può dirsi totalmente libero? Nel quale può sentirsi al riparo, per osservare, osservarsi e mettersi alla prova? Un luogo in cui l’identità non si senta minacciata da tensioni centrifughe e dispersive?
Tale posto, se c’è, è reale?
Al fine di trovarlo l’artista intraprende un viaggio reale e mentale per immagini. Scala le cime più alte, si inoltra nelle grotte più profonde. Ovunque però ottiene solo un deforme, piccolo punto, che cerca la libertà, un rifugio, ma resta invariabilmente schiacciato dall’infinità della materia. Come a dire che il problema della conservazione dell’identità, forse, non è tanto quello del ripristino di un io compatto e monotono, quanto quello di un possibile controllo della tendenza alla dispersione delle numerose anime che abitano l’individuo: un problema di equilibrio dinamico, di governo flessibile della molteplicità.